In occasione dell’uscita de L’armata dei sonnambulidi Wu Ming, il nuovo romanzo storico ambientato durante la fase più radicale della Rivoluzione francese, Doppiozero ha incontrato il collettivo bolognese di scrittori e ne è nata una conversazione sulla violenza, sulla politica, sul teatro, sulla storia, sul rapporto con i lettori, sulla militanza, sulla scrittura.
Il libro si apre con un pezzo della bellissima lettera di Babeuf alla moglie, profetica perché scritta nel luglio-agosto 1789, e trova una conclusione nel gesto di giustizia privata di Marie Nozière, la cui storia è snodo centrale del romanzo; la violenza politica è al centro del libro, le donne la agiscono e, in assoluto, hanno un ruolo decisivo.
Marie Nozière, a nostro avviso, è il personaggio più importante del libro. È lei a mettere in collegamento le vite degli altri personaggi, è seguendo come si muove lei che il lettore può orientarsi e capire dove si andrà a parare. Di tutti i personaggi, è quello che vive un’autentica evoluzione, che è davvero in divenire e, anche quando sembra arrivare a un punto morto, in realtà è al massimo delle sue potenzialità.
Anche le altre donne del romanzo sono importanti: le tricoteuses del foborgo di Sant’Antonio (soprattutto Georgette), le arrabbiate Claire Lacombe e Pauline Léon, Théroigne de Méricourt (che rappresenta la cattiva coscienza di Marie), Olympe de Gouges (che non compare mai ma è evocata più volte, e anche nel cambiare dei riferimenti possiamo vedere un’evoluzione di Marie)… Quando si pensa alla Rivoluzione francese vengono in mente protagonisti maschi, ritratti di maschi: Robespierre, Danton, Marat… Ma in quella rivoluzione, le donne furono in prima fila in tutte le battaglie urbane più decisive, ed erano radicalissime, e in tutto e per tutto protagoniste quando si trattava di ricorrere ai proverbiali «estremi rimedi».
Abbiamo lavorato anni perché le donne dei nostri romanzi fossero credibili, sfaccettate, e non pure proiezioni dell’immaginario maschile com’erano quelle di Q, personaggi piatti, bidimensionali… Le lettrici hanno pungolato il collettivo, le nostre mogli e compagne hanno mantenuto il nostro approccio in una dinamica di feconda crisi, e ci siamo messi in ascolto, abbiamo letto autrici, fatto i conti con tradizioni di pensiero diverse, seguito le discussioni nei forum e blog femministi. Non è stato facile, e tuttora non è facile, siamo un collettivo tutto maschile e durante le riunioni il testosterone si taglia come fosse culatello, quindi è una lotta contro noi stessi. Se nel romanzo questa lotta si vede, siamo contenti.
Marie è anche una «spia», nel senso di segnale, della mancata (ma millantata) lettura del libro. Se un recensore – parliamo di quelli mainstream, ma non solo – parla de L’Armata dei Sonnambuli senza parlare di Marie, come è accaduto su alcuni «prestigiosi» quotidiani nazionali, vuol dire che non ha letto il libro, al massimo lo ha sfogliato, e a volte nemmeno quello, dato che abbiamo letto una recensione interamente basata su una recensione precedente, a sua volta dozzinale e fallata. La recensione B ereditava in toto tutte le rimozioni della recensione A, a cominciare dal ruolo delle donne. Non solo Marie, ma nessun personaggio femminile vi era menzionato. Chiunque abbia letto il romanzo capisce subito che qualcosa non quadra. Ma passiamo oltre.
Nella vostra narrazione del mesmerismo si scontrano due ‘maestri’ che interpretano la stessa idea in modo diverso: il “magnetismo animale” di Mesmer contro il “sonnambulismo magnetico” di Puysegur. Sono due modi di esercitare uno stesso potere. Quale?
Ciò di cui si sta parlando è il controllo delle menti. La suggestione, il suo uso politico. Chi più ne sa più ne metta: si possono trovare riferimenti alle neuroscienze, all’inconscio, alla psicologia delle folle, alla propaganda mediatica, alle nevrosi e psicosi da social media, ai demagoghi trascinatori di masse… Stavamo scrivendo il romanzo da un anno quando uno di noi, in una via di Bologna, ha incontrato il filosofo Andrea Cavalletti. Quanto tempo, come va, dove vai di bello, su cosa stai lavorando… «Ho lavorato su mesmerismo, suggestione, fascinazione politica…», risponde Cavalletti. «Sta per uscire un mio saggio sul tema.» Pensa come ci è rimasto nel sentire che anche noi lavoravamo da tempo su quel groviglio di temi! Del resto, che la cosa fosse e tuttora sia – come suol dirsi – «nell’aria» è evidente, i «sonnambuli» si vedono dappertutto. Il libro di Cavalletti è uscito nel 2011, si intitola Suggestione. Potenza e limiti del fascino politico, e vale la pena leggerlo prima o dopo L’Armata dei Sonnambuli. Che a Bologna nello stesso periodo si stessero scrivendo due libri sul magnetismo è singolare, ma proviamo a pensarci: Bologna è la città del primo V-Day grillino, certe scene di peculiare magnetizzazione di massa si sono viste prima che in altre città, e l’Emilia è la terra dove è iniziato il «ciclo» del grillismo (e, di conseguenza, anche la sua crisi). Ma chi leggesse ne L’Armata dei Sonnambuli e in Suggestione piatte allegorie del grillismo scazzerebbe di brutto. Il «romanzo a tesi» e il «romanzo a chiave» sono forme da cui ci siamo sempre tenuti ben lontani. Cionondimeno, l’exploit di Grillo (a Bologna e in Emilia, ribadiamo, avvenuto prima che altrove) può essere stato tra le «molle» che hanno spinto noi e Cavalletti a riflettere su magnetismo e ipnosi.
Tra i protagonisti delle varie trame narrative ci sono i “muschiatini”, altrimenti noti come “inc(r)edibili”: truppe urbane controrivoluzionarie che raccolgono giovani, disertori e refrattari, inquadrati da veterani della politica, che operano per vendetta personale e per spirito di rivalsa sociale. Chi sono per voi?
Nei muschiatini ogni lettrice e lettore sta ritrovando i suoi fantasmi: per molti sono, ovviamente, i fascisti. Sono reazionari, hanno un’etica del «me ne frego», si muovono in squadracce, aggrediscono i proletari col manganello… Per altri, sono i paninari degli anni Ottanta, emersi dai gorghi della cultura di massa dopo la fine del ciclo di lotte 1968-1980. Per altri ancora, sono hipster o bimbominkia, di quelli che affollano i social media esibendo la loro omologazione imbellettata da anticonformismo. C’è anche chi ha visto in Palazzo Egualità la Leopolda, e nei muschiatini i renziani. Tout se tient.
Nel libro Leonida/Léo è un attore e un emigrato bolognese, un guitto fortemente impulsivo, per usare un eufemismo, che passa dal teatro goldoniano a diventare vendicatore del popolo; e che dai combattimenti clandestini di strada arriverà all’ultraviolenza contro i controrivoluzionari. Vi chiedo di sviluppare questa ampia nozione di ‘teatro’…
Una delle riflessioni che attraversano il romanzo riguarda il significato della parola “rappresentare”, che in senso etimologico vale “far esistere di nuovo”, “rendere presente quel che non lo è”. Nei capitoli che si svolgono alla Convenzione Nazionale, i deputati rappresentano il popolo francese in un modo nuovo: con i discorsi e con i gesti. Prima della Rivoluzione, invece, era il corpo del Re a rappresentare la Francia, attraverso un legame spirituale, non politico. Nello stesso momento Léo, in quanto attore, rappresenta sulla scena i suoi personaggi, sforzandosi di restare fedele agli insegnamenti di Goldoni. Ben presto, però, capisce che il Maestro, con la sua rivoluzione teatrale, è andato in disgrazia proprio a causa della Rivoluzione. E non tanto perché l’Antico Regime gli pagava una pensione, quanto piuttosto perché la Rivoluzione ha portato il teatro nei luoghi della politica, cioè in strada e nelle assemblee, e la politica nei luoghi dati al teatro, con il proliferare di spettacoli pedagogici e tragedie edificanti.
Oggi siamo convinti che l’intreccio tra politica e spettacolo sia una cifra dei nostri tempi: invece, proprio attraverso l’ambiguità del “rappresentare”, esso sta all’origine della rappresentanza politica, e dunque nasce con la Rivoluzione francese. I deputati della Convenzione, già negli anni ’90 del Settecento, andavano a lezione da attori e commediografi. E come spesso accade, i periodi nei quali un concetto viene definito somigliano a quelli nei quali quello stesso concetto va in crisi e le regole che lo tenevano in vita si indeboliscono, così come i vecchi, in certe loro debolezze, somigliano ai bambini. Per questo l’odierna crisi della rappresentanza politica ha elementi di somiglianza con il momento in cui quel concetto venne fondato e praticato per la prima volta. Oggi come allora, alla crisi della rappresentanza politica si accompagna un’intensificazione dell’aspetto teatrale di quella stessa rappresentanza: la battuta prende il sopravvento sul discorso, il personaggio sulla personalità, lo slogan sul programma.
Nel romanzo, poi, c’è anche un altro teatro, oltre alla strada, alla Convenzione e al teatro vero e proprio. È Bicêtre, l’ospedale prigione, l’istituzione totale dove i matti amano rappresentare il mondo “normale” e mettere in scena, nel cortile che li costringe, i principali avvenimenti che attraversano Parigi, vestendo i panni di Marat, di Danton e Robespierre. Il loro teatro è una parodia inconsapevole, perché molti di loro credono davvero di essere Marat, mentre i più consci recitano per vivere, in forma surrogata, quel che non gli è consentito vivere in maniera diretta, ovvero rappresentano perché non possono presenziare. Ma la parodia, come insegna Linda Hutcheon, è nell’occhio di chi guarda: e infatti, a osservare (e dirigere) le recite degli alienati, c’è un ospite molto particolare di Bicêtre: Auguste Laplace, l’uomo che ha scelto Bicêtre come nascondiglio e come scuola. Come accademia politica dove comprendere il potere attraverso l’osservazione della follia. Come teatro dove cogliere la Grande Parodia della Rivoluzione grazie alla sua parodia folle e inconsapevole.
Infine, un ultimo teatro è il romanzo stesso, che non a caso è suddiviso in atti e scene, come un copione. Perché anche un romanzo storico si confronta con i dilemmi del rappresentare, del rendere presente ciò che non è presente, ovvero il passato. E anche un romanzo storico, per ritornare alla Hutcheon, può essere inteso come una forma di parodia, ovvero una riscrittura del passato nel presente, una ripetizione provvista di distanza critica, che sottolinea le differenze e che ragiona su quel che ripete. Senza che questo significhi, gioco forza, scherzarci su, fare dell’ironia e vivisezionare con compiaciuto distacco. Perché la Storia non è soltanto un testo, e non è solo attraverso i documenti che ne facciamo esperienza. La Storia è anche vita, vita di uomini come lo sono anch’io, e quando leggo del desiderio di giustizia di un popolo intero, per me quel desiderio non è soltanto una parola, ma un sentimento che ho provato mille volte. Una parodia critica, ma non distaccata. Una parodia della rappresentazione comune, degli stereotipi, della vulgata storica: una parodia della parodia, dunque. E forse, proprio per questo – perché rovescia ciò che è rovesciato, arbalta un mondo già arbaltato – capace di cogliere la verità narrativa del passato.
L’attenzione al linguaggio dei personaggi è uno dei tratti caratteristici del vostro stile, che vi richiede lunghe ricerche e riscritture aggiuntive. Lo stesso si può dire dei punti di vista collettivi o delle voci che narrano un punto di vista: in questo caso la “voce della strada” che dice “te lo si conta noi, com’è che andò” o il “mondo s’arbalta” è da un lato una sintesi di dialetti e argot, dall’altro è la folla, la plebe, il popolo. Come avete lavorato su questa lingua?
Già in Manituana avevamo reinventato in italiano un argot delle classi pericolose: la lingua del Mohock Club seconda versione. Il Mohock Club prima versione lo troviamo nelle cronache londinesi dell’anno 1712, in diversi articoli dello Spectator e nel diario di Jonathan Swift. Era una gang di strada dedita all’alcool e all’ultraviolenza, affascinata da usi e costumi dei nativi americani, o meglio, dalla conoscenza di terza e quarta mano di tali usi e costumi. Le fonti che abbiamo a disposizione, però, riportano dei «sentiti dire», giocando sul moral panic delle classi abbienti. Nessuno può dire con certezza se il Mohock Club prima versione sia esistito davvero, è plausibile che fosse solo una leggenda urbana, o meglio: una hoax, una beffa mediatica. Nelle pagine della seconda parte di Manituana noi scatenammo una gang epigona e omonima, attiva sessant’anni e passa dopo. A quel punto, c’era il problema di come farla parlare.
La lingua del romanzo storico oscilla sempre tra il mimetico e l’allegorico, ma prevale l’allegorico: la lingua usata dall’autore sta per quella usata dai personaggi. Certo, si può dare un «colore», introdurre un numero limitato di arcaismi ed effetti di vario genere, ma non converrebbe a nessuno scrivere un romanzo storico nella lingua dell’epoca e del luogo raccontati! In primis, perché sarebbe illeggibile; in secundis, perché sarebbe una fatica improba per l’anima del cazzo; in tertiis, perché non si può cristallizzare né ripercorrere a ritroso il divenire della lingua, pensarlo sarebbe peccato di hybris. Lo dice già Manzoni nell’Introduzione ai Promessi sposi, anzi, non si limita a dirlo, ma lo mostra: inizia con una lingua puramente mimetica, imitando l’italiano del Seicento dell’immaginario manoscritto ritrovato, ma dopo pochi capoversi dice: «Vedete? Potrei scrivere tutto il libro così, ma sarebbe una gigantesca rottura di coglioni.» Quindi, passa dalla lingua mimetica alla lingua allegorica: l’italiano che userà sta per l’italiano di duecento anni prima e, a seconda dei dialoghi e dei casi, per il dialetto parlato lungo «quel ramo del Lago di Como», per il milanese, per lo spagnolo ecc.
La lingua allegorica che scegliemmo per il nostro Mohock Club non solo doveva essere sguaiata, pittoresca, stradaiola, volgare, ma doveva anche contenere riverberi dell’argot di altre epoche e gang di strada. Questo perché al lettore post-novecentesco le gesta del Mohock Club non potevano non ricordare Arancia meccanica, o i punk della Londra di duecento anni dopo (precisi spaccati!). Così, partimmo proprio da come suona la lingua di Alex e dei suoi «drughi» nella riscrittura italiana di Clockwork Orange, magistralmente eseguita da Floriana Bossi. In seguito qualcuno ha detto che il Mohock Club parla «come in Arancia meccanica», ma è una banalizzazione: noi ci ispirammo a quella lingua, ma non ne facemmo affatto un ricalco. Abbiamo preso un’attitudine, e una manciata di parole. Il resto è vale tudo: slang di varie parti d’Italia, variegate sporcature, italo-petroniano, riverberi napoletani, bestemmie ferraresi…
Con la lingua allegorica della vox plebis de L’Armata dei Sonnambuli si trattava di andare molto più in là, perché non si trattava più soltanto dei dialoghi tra alcuni personaggi e del discorso libero indiretto di alcuni capitoli: la lingua dei sanculotti, del proletariato urbano parigino di fine Settecento, doveva permeare l’intero libro. La sfida era inventare una lingua che potesse esprimere tutte le emozioni e gli stati d’animo, veicolare il sapido humour dei sanculotti ma anche raccontare momenti drammatici e tragici.
Noi posteri abbiamo una grande fortuna: sono sopravvissuti i numeri del Père Duchesne, il giornale di strada interamente scritto da Jacques-René Hébert. Hébert era un uomo colto, ma conosceva bene la lingua delle classi basse parigine, era affascinato dalle fiamme che, accese sotto il paiolo, tenevano sempre caldo quel denso, scuro brodo di modi di dire, imprecazioni, neologismi che venivano a galla da chissà dove. Per anni scrisse il suo giornale usando quel brodo. Al principio abbiamo tradotto in italiano alcuni articoli, cercando di adattare all’italiano lessico e frasi fatte. Una delle prime parole su cui ci siamo fermati a pensare è l’insulto «jeanfoutre», che abbiamo reso con «gianfotti». Tuttavia, abbiamo capito subito che quella poteva essere solo la «base» della nostra lingua allegorica, perché altrimenti l’operazione sarebbe stata puramente mimetica, quindi fredda, perché le fiamme si sono spente e il brodo di quel paiolo si è freddato, rappreso ed essiccato. Bisognava scioglierlo e riscaldarlo, se davvero volevamo una lingua viva e capace di raccontare la vita. E poi, nello scrivere quelle parti dovevamo divertirci!
Così abbiamo intrapreso un «viaggio sentimentale» verso le nostre radici plebee, recuperando lo slang felsineo della seconda metà del novecento, il dialetto bolognese (che nel libro sarebbe anche comparso in forma pura, nel flusso di coscienza di Léo) e il dialetto ferrarese. Insomma, abbiamo sciacquato i panni nel Reno e nel Po di Volano. Del resto, bolognese e ferrarese sono lingue gallo-italiche, come il piemontese, perciò molto più vicine al francese di quanto non sia l’italiano standard. Il ricorso all’emiliano orientale (così secondo la classificazione più in uso tra i dialettologi) ci è sembrato legittimo per più motivi. Per questo nel romanzo si trovano parole come «soquanti», «sdozzo», «arbaltare», «zagno», «barsacco», «sbrisga», bolognesismi come «lui lì» (rafforzativo di «lui») ecc.
Avevamo già trovato una cifra quando ci siamo imbattuti nel lavoro di Michel Biard, cioè nel suo monumentale Parlez-vous sans culottes? Dictionnaire du Pére Duchesne (500 pagine fitte). Studiando la lingua del Pére Duchesne, Biard ha ricostruito, parola dopo parola, frase dopo frase, origini, utilizzi ed evoluzioni della parlata del proletariato parigino. Un’autentica miniera. Abbiamo tradotto tutti i lemmi del dizionario (non le intere voci, solo i lemmi!), cercando il modo più plastico di renderli in italiano. Il risultato lo abbiamo sparso in lungo e in largo per il libro. Dal libro di Biard vengono, per fare solo qualche esempio, la bestemmia «negoddìo» (jarnidieu) ed espressioni come «dare una spadata nell’acqua», «metterci del verde e del secco», «fare cavolfiore», «pagare con moneta di scimmia» ecc. ecc. ecc.
Una riflessione più generale sul vostro lavoro: un’amica con cui ho parlato, una studiosa di Resistenza, suggerisce che in qualche modo la matrice comune a tutti i vostri romanzi sia la descrizione di cosa succede dopo la “risacca della rivoluzione” e di quali strategie individuali siano possibili dopo che una rivoluzione è fallita. Vi ritrovate?
Con qualche riserva, ma in buona sostanza sì, i nostri libri sono anche manuali di sopravvivenza. Non potrebbero non esserlo, gli autori stessi sono cresciuti con la piena consapevolezza di vivere in un tempo di controrivoluzione. Eravamo chi adolescente e chi ventenne negli anni Ottanta, il decennio della risacca, durante il quale è iniziata a crescere – e continua a farlo – la disuguaglianza sociale, in Italia e nel mondo. Consigliamo un bel libro del collettivo Clash City Workers, Dove sono i nostri, un’inchiesta a tutto campo, scritta molto bene, su come è composta l’odierna classe lavoratrice italiana e dove siano in corso i conflitti più strategici e significativi. Lì si vede con chiarezza, grafico dopo grafico, parametro per parametro, settore per settore, quello che molti di noi sanno per via empirica ma non ancora scientifica: gli anni Ottanta sono l’inizio della grande vendetta contro i lavoratori che avevano osato alzare la testa e lottare per i propri diritti. Negli anni Ottanta comincia a crescere la forbice tra i redditi più alti e quelli più bassi, parte un’offensiva su vasta scala contro i salari, si costruisce l’Italia disegualitaria di oggi. Dove sono i nostri lo consigliamo davvero, non tanto per fare. Leggetelo, va oltre il «manuale di sopravvivenza» e fa proposte operative su come agire.
Detto questo, nei nostri libri non abbiamo raccontato solo la risacca, ma l’intero ciclo della rivoluzione, il fervore, l’entusiasmo, il proselitismo, il culmine e poi la grande sfida di una «fedeltà all’Evento» (per dirla con Badiou). I rivoluzionari de L’Armata dei Sonnambuli, nella loro condotta e nel modo di vivere, vogliono essere fedeli all’Evento che ha cambiato le loro vite. Il quinto atto del libro va anche a fare una ricognizione di queste diverse fedeltà.
Appunto, l’atto quinto. In Come va a finire, si rivelano fonti e modalità di lavoro dei singoli pezzi. Qui vengono seguite le tracce dei protagonisti o dei luoghi citati nel romanzo e si assiste a una vera messa in crisi del rapporto tra vero/falso o verosimile dentro a un romanzo storico.
Mi sembra che abbiate un modo programmatico di intendere il rapporto tra autore e lettore…
L’Atto Quinto del romanzo è il figlio ribelle di una tendenza che caratterizza tutta l’arte – e ormai anche la scienza – di epoca postmoderna: quella di inglobare una riflessione sui propri fondamenti. Volendo esagerare, potremmo dire che l’Atto Quinto sta ai nostri romanzi storici, come il secondo teorema di Gödel sta alle teorie formali abbastanza complesse da contenere l’aritmetica. Mi spiego: noi, di solito, accompagnavamo i nostri romanzi con un apparato di titoli di coda, sistemati oltre la parola “FINE”, che illustravano al lettore, in un linguaggio ancora narrativo ma non più romanzesco, tutte le fonti utilizzate per scrivere il romanzo, le scelte fatte dagli autori in materia di verosimiglianza storica, i riferimenti reali dei vari personaggi. In questo romanzo ci siamo detti: perché non spostiamo i titoli di coda dentro al romanzo stesso? Così siamo sicuri che verranno letti. Se poi li intitoliamo Come va a finire, possiamo esser certi che nessuno li salterà, e che tutto quel lavoro non andrà sprecato. Ebbene: nel momento stesso in cui abbiamo concepito questo progetto, ci siamo resi conto che, spostando quell’apparato nel corpo del romanzo, anche il suo programma di verità risultava modificato, e inevitabilmente il gioco della finzione narrativa si infiltrava per osmosi anche in quelle note, e le infradiciava senza scampo. Pertanto, così come una teoria formale coerente, abbastanza forte da contenere l’aritmetica, non può dimostrare la sua stessa coerenza, allo stesso modo un romanzo storico sufficientemente complesso non può contenere gli elementi d’archivio che ne provano la verosimiglianza: o quegli elementi stanno fuori, in un contesto a parte come i “titoli di coda”, oppure, se stanno dentro, perdono il loro status, ovvero quella stessa affidabilità che erano chiamati a fondare.
Qualcosa di simile era già successo con Timira, il romanzo di WM2 e Antar Mohamed. In quel romanzo, i titoli di coda ci sono, ma ci sono anche, come nell’Armata, frammenti d’archivio infilati nel romanzo e fotografie d’epoca, inserite nel testo proprio come ancore, agganciate al fondale della realtà storica. Una di queste foto recava una didascalia scritta a mano. La didascalia riportava una data che però non si adattava al punto in cui, nel romanzo, tornava utile inserire quella foto. Gli autori allora hanno modificato con Photoshop la data, e poi hanno segnalato l’interpolazione nei titoli di coda. Il che dimostra che, quando l’archivio finisce dentro al romanzo, non c’è verso di tenerlo “al sicuro”: anche soltanto la vicinanza con capitoli di finzione, lo rende altro da quello che sarebbe dentro un faldone pieno di documenti della stessa natura.
Ovviamente, questo modo di trattare le fonte implica una svolta nel rapporto autore/lettore. Una svolta che era già cominciata, per noi, proprio con i titoli di coda. C’è chi ha stigmatizzato quella nostra abitudine, dicendo che un romanzo non ha bisogno di un apparato di quel tipo. Lo stesso tipo di critica venne fatta, nel 1560, allo storico Estienne Pasquier, che scrisse una ricerca piena di note a pie’ di pagina. Gli dissero che Tucidide ed Erodoto non le usavano e che uno storico in gamba non ha bisogno di dimostrare la verità di quel che afferma come un avvocaticchio qualsiasi, che deve invece citare le leggi e i codici. Più avanti, la pratica di citare le fonti divenne comune anche in ambito storico, e secondo Paul Veyne questo accadde perché si modificò il pubblico delle ricerche storiche: non più semplici appassionati, ma accademici e professionisti, che potevano controllare le fonti utilizzate dai loro colleghi. Qualcosa di simile è successo anche con il romanzo storico: Dumas e Manzoni non hanno scritto titoli di coda pieni di rimandi all’archivio, perché per i loro lettori l’archivio era pressocché inaccessibile. Oggi invece un nostro lettore può reperire, con un paio di clic, il 98% delle fonti storiche che usiamo per i nostri romanzi. E allora, perché non citarle? Perché non mostrargli come abbiamo lavorato, come abbiamo interpretato i documenti con le armi della narrativa, come abbiamo parodiato lo stereotipo? Con l’Armata, questo invito diventa ancora più complesso e intrigante: non c’è più un testo “sicuro”, che guida il lettore in questa navigazione attraverso le fonti. La bussola è impazzita: a volte segna il nord, altre l’est, e il lettore deve orientarsi con quella, provare a discernere quando sbaglia e quando no, e interrogarsi sul senso di questo discernimento, se sia davvero possibile distinguere, in ogni singola azione, vero, falso, e verosimile.
L’Armata dei sonnambuli esce insieme a un disco di Wu Ming Contingent, in cui due di voi (WM 2 e WM5) sono anche musicisti. È un disco potente, con testi dal vostro immaginario, musicalmente attraversato da fremiti punk, ma per nulla retrò, in cui rasoiate di chitarre e ritmi quadrati inquadrano un cantato, epico, scabro e antiretorico. Del sito si è già detto; in altri tempi avete scritto per il cinema, come in Lavorare con lentezza. Recentemente ho assistito anche a un reading su Point Lanana su basi jazz e a una versione di Altai per musica da camera, e di sicuro mi sto perdendo qualcosa. Si può dire che è un modo di sviluppare ulteriormente ogni vostro libro?
Fin dagli albori della nostra avventura, ci siamo dati l’obiettivo di raccontare “con ogni mezzo necessario”, di essere narratori e cantastorie, non soltanto scrittori. Non a caso, il motto della Wu Ming Foundation è “slightly more than expected from a band of novelists”. Si tratta quindi del nostro modo di lavorare, non soltanto a partire dai libri. Per fare solo due esempi, il reading “Razza Partigiana” è nato 4 anni prima di Timira, il romanzo che gli si collega, e il reading “Surgelati” nasce in quanto spettacolo, senza supporti di carta. È vero però che questa nostra attitudine raggiunge il suo massimo nell’esplosione transmediale dei nostri libri, una sorta di esplorazione dell’universo narrativo di un romanzo, condotta con strumenti diversi da quelli del romanzo stesso. Un’impresa che, da sempre, portiamo avanti insieme ai lettori, che a loro volta propongono deviazioni e riscritture. Per l’Armata abbiamo avuto cartoline, poster, canzoni e… origami proposti dai lettori. Ognuno di questi contributi non è soltanto un’aggiunta, un divertimento a margine del testo: a guardarli bene ci si accorge che hanno un contenuto critico. Sono come recensioni e commenti, però scritti in un linguaggio diverso da quello che di solito utilizziamo per recensioni e commenti. Inoltre, la galassia transmediale modifica le soglie del testo e sottrae all’autore la possibilità di determinare come il pubblico approccerà la sua opera. Infatti, via via che il tempo passa, i lettori dell’Armata, prima ancora di affrontare il testo, possono incappare in queste libere riscritture. È come se, prima di guardare una fotografia, avessimo a disposizione inquadrature alternative, lunghe didascalie in forma di racconto, colonne sonore, rielaborazioni con tonalità, colori e saturazioni differenti e soltanto dopo tutto questo arrivassimo alla foto dell’autore. Che ne è, a quel punto, delle sue scelte? Ne escono potenziate o irrimediabilmente confuse e impoverite? Noi siamo inclini a rispondere con la prima ipotesi, ma certo non è una questione estetica di poco conto.